La Corte costituzionale, con la sentenza n. 162 depositata oggi, ha stabilito che la pericolosità sociale di una persona sottoposta a misure di prevenzione deve essere sempre rivalutata, indipendentemente dalla durata della detenzione. È stata infatti dichiarata l’illegittimità dell’art. 14, comma 2-ter, del Dlgs 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni». Questo significa che, quando una misura di prevenzione viene sospesa a causa della reclusione, il giudice deve sempre verificare se la pericolosità sociale del soggetto persista, anche se il periodo di detenzione è inferiore ai due anni. Fino a tale rivalutazione, la misura rimane sospesa e le prescrizioni imposte non possono avere effetto.
Il caso all’origine della pronuncia riguarda il Tribunale di Oristano, chiamato a decidere sulla responsabilità di un uomo accusato di aver violato cinque volte il divieto di allontanarsi di notte dalla propria abitazione. La misura era stata sospesa durante il periodo di detenzione, ma sarebbe dovuta riprendere alla sua scarcerazione. Il Tribunale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, ritenendo irragionevole la norma che prevede la rivalutazione della pericolosità solo se la detenzione è durata almeno due anni.
La Corte ha ribadito che le misure di prevenzione, come quelle di sicurezza, devono essere applicate con criteri di attualità e ragionevolezza. Già in una precedente sentenza (n. 291 del 2013), la Consulta aveva affermato che la pericolosità sociale va valutata due volte: inizialmente dal giudice che dispone la misura e successivamente dal magistrato di sorveglianza, per garantire che la restrizione della libertà personale sia ancora giustificata.
La legge n. 161 del 2017 aveva reintrodotto una presunzione di pericolosità persistente per i detenuti con una sospensione inferiore a due anni, ma la Consulta ha giudicato tale norma incostituzionale, in quanto non rispettava il principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 della Costituzione e creava una disparità di trattamento rispetto alle misure di sicurezza. La Corte ha sottolineato che non vi è motivo di ritenere che una detenzione inferiore a due anni non possa incidere positivamente sulla personalità di un individuo, specialmente in presenza di misure alternative con valutazioni positive.
Inoltre, l’art. 13 della Costituzione prevede che ogni restrizione della libertà personale sia soggetta a un accertamento individuale da parte di un giudice. La norma impugnata contrasta anche con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che stabilisce la funzione rieducativa della pena, e presume erroneamente che detenzioni brevi siano inefficaci nel modificare l’attitudine antisociale di un soggetto.
In conclusione, la Corte ha stabilito che l’ordinamento giuridico deve consentire una valutazione caso per caso, lasciando aperta la possibilità che, al termine della pena, la pericolosità sociale del soggetto sia ridotta o eliminata, o che persista e richieda ulteriori misure di prevenzione.
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