Sulla scorta di recenti avvenimenti, che hanno visto coinvolto un medico per aver prestato assistenza ad un noto mafioso latitante siciliano, ci si sta nuovamente interrogando circa la rilevanza penale della prestazione sanitaria effettuata nei confronti di un soggetto che si sia reso colpevole di un delitto.
La fattispecie di favoreggiamento personale, disciplinata dall’art. 378 cod. pen., prevede la punizione con la reclusione fino a quattro anni nei confronti di chi “dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità […] o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti“.
Il secondo comma prevede, poi, che la pena da applicare non possa essere inferiore a due anni qualora il delitto commesso sia quello di cui all’art. 416 bis c.p.
Trattasi di un reato di pericolo per la cui configurabilità il soggetto agente deve realizzare una attività idonea a frapporre un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle indagini che erano in corso o che si sarebbero potute svolgere.
In tema di favoreggiamento e aiuto prestati da un sanitario, l’attenzione deve, però, essere preliminarmente rivolta alla scriminante dell’adempimento di un dovere prevista dall’art. 51 cod. pen. ove si esclude la punibilità di colui che adempia ad un dovere imposto da una norma giuridica.
Nel caso che ci occupa, il c.d. “diritto alla salute” è costituzionalmente garantito dall’art. 32 il quale sancisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività“. Inoltre, il codice di deontologia medica, agli articoli 3 e 7, stabilisce che “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza discriminazioni di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia […]” e che “il medico, indipendentemente dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivare ogni specifica e adeguata assistenza“.
La figura del medico non è, pertanto, assimilabile a quella di un semplice fiancheggiatore, ancor di più in ragione dell’esonero dall’obbligo di denuncia ex art. 365 c.p. Il secondo comma del medesimo articolo, infatti, dispone che non si applica tale obbligo quando “il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale“.
Non potendo, ad ogni modo, tracciare una linea netta fra la condotta penalmente rilevante e non del medico, occorre fare riferimento ad i più recenti arresti giurisprudenziali secondo cui “non integra il reato di favoreggiamento personale la condotta del medico che presti la propria assistenza sanitaria a un ricercato, tranne che abbia attuato anche condotte di altra natura che, travalicando il suo dovere professionale di tutelare la salute, contribuiscano a che la persona assistita eluda le investigazioni o le ricerche dell’autorità” (Cass. pen. Sez. 6, n. 38281 del 11/06/2015; Sez. 6, n. 26910 del 05/04/2005).
Al contrario, la Suprema Corte, già nel 2001, aveva ritenuto responsabile di favoreggiamento personale un medico che, per curare un noto e pericoloso latitante, si era recato nella località ove questi risiedeva disattivando il proprio cellulare; ciò poiché i giudici di legittimità hanno ritenuto che il medico avesse assunto tali cautele al fine di preservare gli accorgimenti adottati dall’interessato per sottrarsi alle ricerche delle forze di polizia (in tal senso, Cass. Pen. 30 ottobre 2001, n. 2998).
Sulla scorta di ciò, i giudici di legittimità hanno altresì ritenuto integrata la fattispecie di favoreggiamento nella condotta del medico che, avvalendosi del ruolo direttivo esercitato all’interno di un laboratorio di analisi, aveva fatto sì che il latitante fruisse in maniera sistematica, in un significativo arco temporale, delle prestazioni della struttura sanitaria senza correre il rischio di essere individuato dagli inquirenti, dal momento che gli accertamenti diagnostici venivano effettuati a nome dello stesso sanitario (Cass. pen., Sez. VI, 1 marzo 2016, n. 12281).
Parrebbe, quindi, che – in assenza di condotte ultronee – il medico non sia punibile per aver prestato la propria attività professionale.
Invece, laddove nella condotta del medico dovesse rinvenirsi una c.d. “condotta aggiuntiva di altra natura”, in assenza di un intervento da parte del legislatore volto a chiarire quali di queste comportino la punibilità di una condotta altrimenti pienamente lecita, ci si dovrà continuare ad affidare esclusivamente al libero convincimento del singolo giudice.
Drssa Caterina Piacentino
analisi attualissima e puntuale